domenica 27 giugno 2010

"Acciaio" di Silvia Avallone

"Acciaio" di Silvia Avallone sta diventando il caso editoriale dell'anno come "La solitudine dei numeri primi" di Paolo Giordano un paio di anni fa, complice un buon ufficio stampa e il passaparola negli ambienti giusti. Gia premiato e in corsa per lo Strega il libro ha per protagonista il vuoto della società attuale, un vuoto che rischia di annientare le esistenze sembra volerci dire l’autrice ancor più -ma va là- nei quartieri periferici ed emarginati dove persino l'odore del mare, il suo colore è schiacciato dalla bruttezza delle case popolari, dalla fabbrica (l’acciaio del titolo viene da lì) che mangia i sogni e consuma i corpi.
Basta leggere Desiati -giusto per citare uno scrittore “giovane”- per sapere che tutto questo è stato già descritto, e senza presunzioni molto meglio. E baste prendere in mano un qualsiasi testo di Erri De Luca per cogliere la fatica e il disagio dell'operaio, del muratore, dell'uomo che lavora senza però essere atterriti dalla pochezza espressiva e dalla mancanza di profondità che annebbia lo scrivere dell’Avallone.
La stessa si concentra poi su due ragazzine, Anna e Francesca, due adolescenti colte nel momento in cui solitamente si sboccia alla vita: quattordici anni. Tutto corre nel tempo che va da un'estate all'altra. Meno di un anno. Il loro è un atteggiamento strafottente, quasi aggressivo. Questo solo pensano possa salvarle dal confondersi con la massa informe della gente senza speranza, senza futuro che le circonda. Non c’è un momento in cui traspare gioia vera da quello che fanno, nemmeno uno, nemmeno quando l’autrice vuol darcelo ad intendere. Le due sanno di essere belle, giocano a provocare quando solo pochi mesi prima si dilettavano con le bambole, ora quelle bambole sono i maschi e i maschietti del quartiere, quelli che le sbirciano quando si dimenano nude nel bagno al ritmo di una musica assordante, quelli che seguono i loro corpi strizzati in microcostumi in mare. Anna e Francesca pensano di sapere cosa ‘non vogliono’: restare a via Stalingrado, ma ignorano i sentimenti veri, non padroneggiano i diversi aspetti della vita che presto o tardi le metterà alla prova: un padre violento o assente, una madre rassegnata o in perenne attesa, le piccole invidie della gente, un lutto, il tradimento, le stesse inquietudini adolescenziali che rinnegano per sentirsi più grandi, calpestando tappe essenziali per la formazione della persona.Intorno alle due modelli sbagliati, vite sacrificate, emozioni represse. A salvare Francesca e Anna forse solo l’amicizia e qualcosa di più, qualcosa che non si sa spiegare.. sì forse l’amore che non si può dire, che si deve rinnegare perché agli occhi di tanti illecito, sbagliato. Invece è l’amore che può salvare, può dare la forza di guardare oltre lo spazio ‘finito’ di un cortile, oltre l’orizzonte, verso l’isola d’Elba che segna un nuovo inizio.Romanzo che attanaglia, inquieta, descrive quel “nulla che riempie” tanti giovani schiacciati da falsi miti, ipocrisie e una società in cui i modelli di riferimento sono finiti triturati nel qualunquismo televisivo, una società che beccheggia nel mare agitato della crisi.Un romanzo che scuote appena, non segna alcuna novità né per contenuti né per narrazione e di cui, parafrasando commenti esageratamente benevoli di certa stampa, non ‘ci si innamora’ (Gioia) né tanto meno ‘sorprende’ (Vanity Fair).

Nessun commento:

Posta un commento