mercoledì 31 maggio 2017

"Una storia nera" di Antonella Lattanzi

"Le persone danneggiate non guariscono mai".
Così si sentono Carla e i suoi figli Nicola, Rosa e la piccola Mara.
Danneggiate da un amore malato. Un amore, quello di un marito, padre, Vito Semeraro, che ha rotto l'incanto di una famiglia solo in apparenza perfetta.
Perfetta agli occhi della piccola comunità di paese come alla grande città che abitano.
Perfetta in chi non comprende come non si possa non amare un uomo bello, ricco, un ottimo professionista.
E invece.. l'apparenza maschera liti giorno dopo giorno per le cose più assurde, perché anche il pane acquistato in un posto diverso può far saltare i nervi a Vito Semeraro, farlo impazzire di gelosia, spingerlo alla violenza.
Ogni giorno, anno dopo anno.
Uno stillicidio per Carla: parole sbagliate, umiliazioni, violenze fisiche, psicologiche.
Un tormento aver rinunciato a tutto, lavoro, studio, sogni, finanche l'amore per colpa di chi credeva perfetto.
Insieme da ragazzini, poco più che quarantenne Carla trova il coraggio di dire basta. Di lasciare il marito e ricominciare con la piccola Mara da crescere, per risparmiare almeno a lei le violenze di cui si erano riempiti gli occhi i figli grandi.
E quando, con ostinazione, la speranza comincia a riempirle il cuore di normalità, quella normalità fatta di un lavoro umile, di cure per la piccola di casa, parole gentili con i figli, finanche un uomo comprensivo e amorevole accanto, tutto precipita.
La festa della piccola Mara. Una serata da trascorrere in famiglia, come una volta. Poi, il giorno dopo, la scomparsa di Vito Semeraro.
L'ansia, l'attesa, il non detto, i sospetti fino al ritrovamento del cadavere e la confessione di Carla.
Da vittima a carnefice il passo è breve.
Lo è per i media che seguono il processo, lo è per la gente, lo è per la sorella di Vito che reclama vendetta, non giustizia.
Ma è davvero così?
Carla, minuta e bellissima, combatte, si difende, spiega con parole sue l'angoscia di una vita soffocata dalla paura di essere uccisa e sfida tutti chiedendo: "Voi lo sapete perfettamente quello che pensate? Quello che volete? Voi potete dividere tutto con certezza, giusto e sbagliato, sì e no, questo e quello? Se voi potete io vi invidio con tutte le mie forze".

Giusto o sbagliato? Continua a chiederselo il lettore fino all'ultima pagina. Troppo amore. Un amore distorto che corrode ed entra nell'anima. E fa male, ogni parola arriva al lettore e provoca un intenso fastidio.
Malefico come può esserlo un veleno che attraversa il cuore di Nicola, che spesso si sente troppo simile al padre. Protettivo, ma anche violento, irrequieto, instabile, costretto a crescere troppo in fretta, l'ansia di dover difendere le sorelle, aiutare la madre, fino a quell'ultimo sguardo in carcere, uno sguardo che mette a nudo la verità e apre la disfatta dell'anima, perduta, forse per sempre.
Condividere un segreto, comprendere, perdonare o emendarsi, fuggire.
Impossibile dirlo.
"Una storia nera", un racconto in presa diretta sull'evoluzione di un crimine. Banalmente si potrebbe risolvere in una storia vera. Vera come sa esserlo il male quando prevarica il bene. Quando annienta la coscienza. Quando corrode i pensieri.
La descrizione di un mondo, di un tessuto sociale che spiega la percezione erronea dei rapporti uomo-donna, la distorsione dell'amore che si fa gelosia, possesso, una morsa che stringe la gola di chi vuole solo vivere.
Meccanismi perversi, insondabili. Eppure resi perfettamente dalla scrittura della Lattanzi. Bastano pochi particolari, descrizioni che paiono fotografie tese a cogliere l'anima, la personalità dei personaggi.
E' quella della Lattanzi una scrittura a tratti cinematografica a tratti introspettiva, analitica. Il lettore sembra di conoscere Nicola, Rosa, persino la piccola Mara e su tutte le donne della storia, Carla, l'amante Milena, la spietata  Mimma.
Un romanzo potente. Che atterrisce. Un peso sul cuore.
"Sono una donna sola da quando ho conosciuto Vito, ma da quando l'ho lasciato sono una donna sola e viva, prima di lasciarlo ero già morta. Era già scritto".

mercoledì 24 maggio 2017

"La più amata" di Teresa Ciabatti.

E poi ci sono quelle storie che ti entrano dentro e ti chiedi perchè.
La voce narrante è la stessa dell'autrice, Teresa Ciabatti, che ricorda, impietosamente, la sua infanzia infelice - ma lo era davvero?- e la sua adolescenza, che l'hanno resa la donna inadatta al ruolo di madre, moglie, finanche persona -sa essere impietosa con se stessa la Ciabatti nel giudicarsi- che non si perdona sciatteria, silenzi, mancanze. E nel farlo racconta la sua famiglia, su tutto il rapporto totalitario con il padre, il professore, il medico famoso, la brava persona cui i poveri cristi aspiravano per farsi curare, ricco, ricchissimo da fare invidia, che mal celava i legami con massoni, politici e affaristi. Uno che credeva di potere tutto, finanche fregare la morte.
E invece no.
Ha fregato tutto il resto. Sacrificato tutto. Esposto la famiglia, i figli a stordimenti, bugie, disagi.
E lei Teresa, la più amata. Così si sentiva al cospetto del padre che la vezzaggiava al punto di permetterle di giocare con il suo anello, quel simbolo di potenza che scoprirà solo dopo essere stato parte della sua rovina. La massoneria, le simpatie con i golpisti di Borghese, il clima asfittico degli anni di piombo, il sequestro e ancora l'illusione di altri affari ancora più grossi, un gioco al rialzo con la sorte. 
Teresa se ne sta lì, a nuotare nella piscina che nasconde un bunker, irriverente, sempre più viziata, prepotente, lagnosa quando non può avere quello che sa il padre può comprarle. Tutto ma non il suo amore, non il tempo. Quello il grande professore con la figlia non l'ha mai trascorso, sempre a delegare. E lei Teresa che fa di tutto per attirare la sua attenzione, fino ad odiare la madre e tutti quelli che ostacolano il suo rapporto con lui.
Non farà mai in tempo a recuperare l'affetto negato. Nè a mediare con la sua infelicità.
Scrivere forse è per la Ciabatti il tentativo di emendare l'insolenza di essere sopravvissuta: "Chi è migliore? Colui che sopravvive al dolore, e io lo sono, sono qui, sopravvissuta al buio del passato (era così buio?), al gelo di un'infanzia infelice. Io sono una sopravvissuta, e voi no".
E il lettore la prende per mano la piccola Teresa e diciamolo pure fatica a sopportarla. Sempre così delirante nel voler essere la prima.. prima ballerina pur non avendo grazia e fisico, prima agli occhi del mondo intero, prima a rinfacciare, ingigantire la sua ricchezza, le conoscenze del papà. Il lettore percepisce quell'"Io", "Io", "Io" ripetuto ad oltranza da Teresa, un "Io" che sta come un grido soffocato per dire agli adulti "sono qui', amatevi davvero, preendetevi cura di me.
Una scrittura diretta, che testimonia per certi versi, la storia recente del nostro paese, impietosa, brutale.
E alla fine nella scrittura la Ciabatti ritrova se stessa, o almeno comincia a scoprirsi ben oltre l'immagine riflessa nella specchio. Oltre quella dismorfofobia dell'anima oltre che del corpo, se così si può dire.
E nel farlo colpisce al cuore di chi legge.

venerdì 19 maggio 2017

"Le otto montagne" di Paolo Cognetti

"Da mio padre avevo imparato che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare".
Pietro. L'eredità di un padre che lo ha molto amato. Il fare al posto delle parole. E un luogo: la montagna, testimone di un vissuto a cui tornare, sempre.
O quasi. 
Per ritrovare l'affetto dell'amico di una vita, Bruno. Il fratello mancato. 
Rivelare l'autenticità dei legami.
Superare le perdite, le sconfitte, gli intralci della vita. Fare progetti. Sognare. Ripartire. 
Cognetti delinea con una scrittura asciutta la storia di una grande amicizia maschile, l'intenso rapporto padre/figlio, la sfida all'emancipazione dal conformismo. 
La sensazione che arriva al lettore è di immedesimazione con il protagonista. Un racconto che sviscera sentimenti, emozioni. Che sembra rivelare verità assolute. Una narrazione che impone riflessione. 

lunedì 1 maggio 2017

"Gli innocenti' di Paola Calvetti

"La verità è che non so più distinguere fra quello che ricordo effettivamente, quello che mi hanno raccontato e quello che racconto a me stesso".
Così Jacopo, violinista cinquantenne. 
È a Firenze dopo anni di assenza, per un concerto. Al suo fianco la giovane violoncellista Dasha. Da quando si sono conosciuti, a Parigi, sono trascorsi poco più di sei anni. Quel giorno a Parigi Jacopo ha afferrato per la prima volta la felicità.
Lui, così introverso, malcela l'animo tormentato dell'orfano che è stato. L'abbandono all'Istituto degli Innocenti di Firenze, le origini ignote, l'adozione ne segnano ancora i passi nella vita quasi a farlo sentire sempre fuori posto, in attesa dell'ennesimo colpo a tradimento, solo la musica, il suo violino a tenerlo in piedi.
Pure Dasha è una sopravvissuta. In fuga dall'Albania, lontana dall'amata famiglia, ha fatto del suo violoncello l'occasione per rinascere altrove e imparare ad essere felice.
Nel mare della vita due anime solitarie si sono riconosciute e hanno saputo appartenersi ma per assaporare davvero la felicità è necessario pacificare gli ultimi tormenti di un passato che reclama attenzione, perdonarsi e abbandonarsi all'amore cui la musica di Brahms fa eco.
Un romanzo atteso quello della Calvetti. Tra le poche autrici italiane a dare forma alle emozioni con un pathos ed un sentimento che coinvolge il lettore nella storia. La tenerezza di Dasha e al contempo la sua forza a dispetto delle prove della vita che ha dovuto sopportare la rivelano come la giusta compagna per Jacopo, anima complessa, tormentata, implacabile verso se stesso e quell'abbandono che sente addosso più di un marchio e che lo spinge a credersi incapace di prendersi cura di un figlio.
Ma l'amore può tutto. Ce lo rivela la grazia del cuore di Dasha e la musica di Brahms.
Un piccolo romanzo incantevole che scalda il cuore e riconcilia con la vita.