venerdì 27 novembre 2020

"Una donna quasi perfetta" di Madeleine St John

Un bistrot, una coppia che beve del vino flirtando, una donna che li guarda.

Simon e Gillian sono amanti da alcuni mesi, stanno bene insieme, non si sono promessi nulla se non vivere il momento. La donna che li fissa è Lydia e sta per scombinare l'idillio. Perché Lydia è una cara amica di Flora, la moglie di Simon. La figura assente dalla scena. Vera protagonista della storia, Flora è madre attenta e premurosa di tre figli, ha un lavoro impegnativo che le piace, cura la casa e ama suo marito eppure avverte che non tutto è come dovrebbe andare, il bisogno di fede latente che si riaffaccia sembra essere l'unico appiglio gentile a giorni di ansia. Il dubbio di non essere abbastanza la tormenta, e il marito spesso assente fino a tardi che ironizza sulle sue manie di perfezione, sul suo rapporto con la fede è un piccolo tarlo che scava buchi nella parete di felicità che Flora ha costruito nel tempo.

Felicità.

Tutti i personaggi del romanzo della St John sembrano approcciarsi all'idea di felicità con fatica, bisogno struggente. Case molto belle,   vite in tiro, vacanze nella douce France, aspettative ma anche progetti e duro lavoro. Tutto inscatolato in ruoli codificati. Simon che si lascia andare ad una relazione senza avvertire la colpa verso Flora e la famiglia messo alle strette dallo sguardo indagatore e giudicante di un'altra donna, Lydia, amica di Flora che pure, con la stessa oculatezza con cui fa acquisti, conti e progetti, mette alle strette Simon. Così Gillian impermeabile alla fine della storia con Simon, sempre centrata su di sé, sui propri obiettivi e come raggiungerli.

La St John descrive una donna quasi perfetta, Flora, la sua famiglia, i timori taciuti alfine in una domenica al museo, davanti a un dipinto che ispira la speranza di un incedere lento nella vita, così prossimo a tanti, che sì.. somiglia persino alla felicità.

"Uno deve decidere per sé il meglio che può" e quel meglio, giorno dopo giorno, è un bacio furtivo che sa di fuga, un pensiero di ribellione, uno sguardo attento verso chi abbiamo accanto, l'idea stessa di preservare la serenità di una famiglia.

Capace di una scrittura così attenta al personale, agli umori dei personaggi, ai particolari che svelano le peculiarità dei protagonisti Madeleine St John regala al pubblico un libro prezioso, leggero, di cuore.

Donne fragili in apparenza che con forza invece si mettono in discussione e relegano in un angolo le paure che spesso abitano l'uomo.

domenica 22 novembre 2020

"Il paese dalle porte di mattone" di Giulia Morgani

“Cosa volevate?” “Quello che vogliono tutti. Cose semplici, ora così lontane. Amare, sperare. Vivere. Confidando che il tempo cura ogni dolore”.

Giacomo è un giovane capostazione al suo primo incarico. Centunoscale è il piccolo paese a lui destinato. La guerra alle spalle e un amore sincero a cui anela tornare presto. E’ pieno di speranze quando arriva al piccolo paese avvolto da un coltre di nebbia. L’unica persona che è con lui sul treno è una donna che cerca di dissuadere la sua permanenza. “Non abbiamo bisogno di nessuno”.

Giacomo sembra non farci caso, non ha intenzione di lasciarsi scoraggiare benché la nebbia, il silenzio e l’abitato spettrale sembri suggerire altro. Poco più di un presagio. Ad ospitarlo due fratelli in una casa che nessuno vuole nemmeno indicargli. Teste basse e sguardi impauriti. E infatti sin dalla sua prima notte al paese rumori violenti, grida, un battere incessante sembra squarciare il suo sonno. Ma il giorno porta ristoro e tanta voglia di fare. Giacomo è deciso a far rinascere la piccola stazione abbandonata e sul punto di crollare. Ma intorno vi sono poco più che macerie e nessuno disposto ad aiutarlo.

Il paese è diviso in un abitato di vecchie case pressoché diroccate e disabitate e un piccolo centro nuovo. Solo Roberto, un bambino dagli strani capelli grigi sembra rivolgergli la parola più incuriosito dai treni che dal giovane venuto da lontano. In paese nessuno è ben accolto. Ogni presenza estranea è scoraggiata, sembra che tutti siano ostaggio di un incantesimo. Le case del borgo antico celano anime incastrate nel tempo, quasi tutti coinvolti in tragedie prossime impossibili da dimenticare, di cui è più semplice accusare la stregoneria, la malattia che l’orrore della guerra, dell’uomo che ignora quanto la perdita di piccoli innocenti possano stringere un intero paese nel silenzio di anni di pregiudizi, rinunce, dolore che ammanta tutto come una coltre di colpe collettive.

Giacomo è deciso a capire, a spiegare e spiegarsi tutti quei misteri e a sfidare il pregiudizio, la malattia aprendo il suo cuore alla speranza che si possa tornare a desiderare le cose semplici. A riunire il piccolo paese tutto intorno alla stazione, lì una fotografia aveva fissato l’ultimo momento felice della comunità, e lì si sarebbe offerta a tutti la possibilità di un quotidiano di speranza. Per Roberto, per il sarto, per la maestra, per l’anziano bottegaio, per il fornaio, per il prete che aveva smesso di celebrare scosso dalla tragedia di cui era stato testimone, la fragile Malvina, i suoi fratelli, il vecchio capostazione e tutti quelli che avevano smesso di vivere, vittime di rabbia e dolore, decisi a nascondere dietro una parete di mattoni i ricordi felici, la vita di un tempo e tutti i sogni perduti. E alla fine l’ostinazione di Giacomo, era stata ripagata, in un tempo che aveva ripreso a correre, minuto dopo minuto mentre crollavano le pareti di mattoni e i sogni tornavano a vivere e le voci tornavano a risuonare nel paese come la musica, i colori, semplicemente la vita.

Smettere di guardare all’altro come nemico, spiegare e accettare quello che non si conosce, superare il dolore e perdonarsi, questo aveva riportato Centunoscale a vivere mentre il treno allontanava Giacomo dal paese riportandolo alla città, al suo amore, alla sua di vita che cominciava davvero. Sembrava che il suo compito lì fosse finito, quando era arrivato nemmeno sapeva di averne uno, di certo non così impegnativo, ma Giacomo si apriva alla vita, sempre, aveva fiducia negli altri, condivideva il bene perché solo quello conosceva. Ma Centunoscale, la tristezza dei suoi abitanti, quei mattoni che avevano imprigionato la vita, li avrebbe portati con sé, sempre.

Esordio interessante quello della Morgani, una storia che occhieggia al gotico ma cela tutto l’orrore di cui è capace l’uomo e il dolore che lo soffoca al punto di costringersi ad una vita che è solo dubbio, rinuncia, sospetto, delazione. La narrazione è fluida, intrigante, appassionata come di chi racconta di una storia che è patrimonio di ricordi, atmosfere comuni. E arriva dritta al cuore.


domenica 8 novembre 2020

"Tommaso e l'algebra del destino" di Enrico Macioci


"Il 14 agosto del 2014, Tommaso Rovere, cinque anni e mezzo, fu vittima di tante piccole sfortune che sommate tutte insieme comportarono una sfortuna più grande".

Un auto parcheggiata all'incrocio di strade deserte. È ferragosto. Nessuno cammina, pochissimi sfilano sbadatamente accanto all'auto dove siede il piccolo Tommaso.

Stretto sul sedile posteriore, sul seggiolino che avrebbe dovuto proteggerlo, se non fosse che il padre l'ha lasciato lì solo, l'illusione di allontanarsi per pochi minuti, per correre dalla donna con cui da mesi tradisce la moglie, Sonia, la madre del piccolo Tommaso.

Sembrano lontani i tempi felici, lontani pure i rimorsi di guardare al figlioletto come ad un impedimento. Giorgio Rovere, così si chiama, svolta l'angolo, attraversa un sottopasso, il telefono in mano compone ostinatamente un numero a cui nessuno risponde, la strada e l'impatto con l'auto che lo travolge.

In ospedale non avranno nulla per identificare l'uomo che un medico opera, meccanicamente, come una cosa fatta bene, e basta.

Intanto passano i minuti, le ore e Tommaso capisce che il padre non tornerà. Fa caldo, troppo. Ha sete, fame, sonno. Ha momenti di sconforto, rabbia. Le sue mani sono piccole per liberarlo dalla stretta della cintura di sicurezza. Sente voci, immagina di vedere un compagno d'asilo cattivo con lui, non ha forza di gridare, fuori due bimbi lo guardano poi corrono via e le forze lo abbandonano, come ha fatto il suo papà. E la mamma, l'odore buono dei capelli quando si china su di lui per baciargli la fronte è poco più di un ricordo.

Le ore passano, l'ombra della sera rinfresca la pelle di Tommaso, è sfiancato, fuori piove, no.. diluvia. Un'ombra nera affianca l'auto. Tommaso è piccolo, non sa dare un nome ma sa che è il male, l'abisso da cui non si torna, che ghermisce e lui è piccolo, gli umori del suo corpo impregnano l'abitacolo dell'auto, piange, il corpo freddo si muove appena.

Sonia, la mamma di Tommaso ha lavorato fino al pomeriggio, la rabbia per il tradimento del marito che sente sta per travolgere la sua famiglia nasconde l'inadeguatezza di sapersi infelice a prescindere, quasi che il tempo, la vita le fosse sfuggita via senza sapere come, perché. Non sa raccontare il suo malessere nemmeno alla madre che le chiede del nipotino. È solo per un indisposizione del marito che Tommaso non è con loro. Ne hanno cura da sempre. Sono le parole del nonno che Tommaso continua a ripetersi in auto nei momenti di lucidità. 

Tommaso... che ignora che il padre è in un letto d'ospedale, che ignora che la madre è ferma in auto a poche decine di metri da lui, in attesa di cogliere in fragrante il marito lasciare la casa dell'amante, che ignora con ostinazione senza mai muovere il capo, spostare lo sguardo l'ombra nera che abita la notte, e si confonde alla pioggia.

Tommaso ha cinque anni e mezzo. Ha superato la notte.

Poi "..le circostanze sfortunate a un certo punto terminano, e da lì iniziano le circostanze fortunate. Accade semplicemente, terribilmente così. La sfortuna di uno finisce e comincia quella di un altro".

Con una forza dirompente la scrittura di Macioci incastra il lettore parola dopo parola, pagina dopo pagina. Lo incastra alla sua di coscienza, a quanto l'animo umano soccomba al quotidiano che diventa ordinario, a vite che si indossano come abiti comodi, troppo per essere cambiati, e invece smarriamo il senso profondo dei sentimenti, di quello che conta davvero, delle piccole cose che possono e fanno la differenza.

Che sia lo sguardo di un bambino che rifugge le paure tutte per superare la notte più buia a segnare il passo, è un invito di forza, è una forma di fede assoluta, una volontà di cambiamento, la certezza che a dispetto dell'algebra del destino c'è il desiderio di credere che tutto è possibile.

"Madrigale senza suono'" di Andrea Tarabbia

Un manoscritto trovato per caso, un compositore geniale del Novecento, Igor Stravinskij, e lui, Gesualdo da Venosa, principe e madrigalista tra i più noti, vissuto tra il XVI e il XVII secolo, bollato da fama sinistra di uxoricida e ossessionato dalla musica in cui rifletteva tutti i sentimenti: ansia, dolore, tormento, speranza, espiazione, purezza, gioia, fino allo spasimo.

"...trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una formula assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte. Questo è il sogno della scrittura. Ma è anche la sua chimera".

In un testo a due voci, tra Stravinskij che prova ad interpretare la musica di Gesualdo adattandola al suo tempo, e quello di Gioacchino Ardytti, autore della cronaca sul principe di Venosa, il lettore si perde consapevolmente. Ogni pagina da romanzo, finzione, si mescola alla storia, alla verità, raccontando di un uomo destinato a governare un territorio a dispetto della sua vocazione naturale a fare musica, in modo innovativo, ignorando le regole scritte per farne di nuove, con effetto dirompente. Gesualdo da Venosa, però ha visto il suo nome macchiato dall'assassinio dell'amata moglie, Maria D'Avalis, rea di averlo tradito. E a breve la sua vita sarà attraversata da dolori, perdite, tormenti. La morte di un figlio in tenera età, il dolore cieco della seconda moglie, l'odio del primogenito che gli rinfacciava l'assassinio della madre, l'ansia del futuro incerto. Un tormento, struggimento, misto a impotenza a dispetto del potere che deteneva che lo facevano l'uomo tormentato che trovava diletto, ristoro solo dalla musica che sperava lo consegnasse alla storia, gli tributasse l'onore che sapeva di meritare.

A fare da sfondo alla storia di Gesualdo da Venosa una ricostruzione storia/scenica si può dire che come la partitura della sua musica racconta con puntiglio un territorio, un tempo, una società, un quotidiano dove trovano spazio le descrizioni persino degli odori, degli umori delle persone. Che siano umili servitori, o il medico di famiglia che sullo studio dei cadaveri improvvisa cure per il suo principe, le guaritrici, o l'uomo di chiesa che promette il perdono divino, soldati, contadini, e lui quel Gioacchino, storpio, vigile e fidato servo sempre al fianco del suo principe, sin dai tempi del convento.

Digressione, falso, o riflesso dell'anima nera di Gesualdo, Gioacchino è voce narrante della vita del principe, raccoglie la sua rabbia, e le sue confidenze, nasconde nei sotterranei il segreto del suo crimine efferato e dallo stesso verrà annientato, null'altro che la coscienza che chiede di essere mondata dal peccato prima di ricongiungersi a Dio.

Un romanzo che è storico, gotico nei toni e nei colori, tratteggiato di densità, gravità e al tempo stesso leggerezza, la stessa che svolazza su una partitura. Racconta l'amore totalizzante per la musica, come la furia amorosa, la determinazione di un musicista ad interpretare e riadattare al meglio una musica lontana per regalarla al mondo, con la capacità di una scrittura che si fa davvero visiva, piena, destinata a catturare l'attenzione del lettore.

Tarabbia indaga l'animo tormentato di un uomo che riflette il suo malessere e il suo essere tutto nelle note e attualizza il messaggio di potenza costretto nell'opera dell'artista geniale e innovatore che fu Gesualdo da Venosa.