Scendono in campo i giocatori
della Juventus e del Liverpool.
Scendono in campo nonostante
tutto, quel 29 maggio 1985.
Scendono in campo ma hanno nel
cuore silenzio, dolore e rabbia.
Gli occhi spersi, pieni solo di quella
massa di corpi ridotti a niente, maschere di sangue, lasciati lungo i margini
della pista d’atletica che circonda il rettangolo verde.
Lo stadio dell’Heysel doveva
accogliere gente festante per la finale della Coppa dei Campioni, uno dei suoi
settori, il settore Z, si sbriciolerà sotto il peso dei tifosi juventini
costretti alla fuga dalla carica degli hooligans inglesi. Lo stadio sarà la
tomba dei sogni infranti di quanti speravano di condividere un momento di
spensieratezza, di lasciarsi coinvolgere dal gioco più bello al mondo.
Incompetenza e inadeguatezza
delle forze dell’ordine, degli organizzatori dell’evento e degli stessi
soccorsi, ma anche il cieco sguardo degli uomini di potere del calcio imprigionati
da obblighi, regole, contratti da rispettare firmeranno le responsabilità della
tragedia.
Una tragedia umana.
Di questo si trattò, di tragedia
umana.
Nomi di uomini, bambini; volti,
vicende personali che meritano rispetto e un posto nella memoria collettiva del
popolo italiano. Non elemento di discordia negli stadi, non ripicche, non
oggetto di odio nei confronti di una tifoseria o l’altra. Brutalmente vittime
innocenti dell’abisso del male in cui può sprofondare l’uomo, per liberare le
proprie ansie, vendicare i torti subiti, scatenare la rabbia. Allo stadio gli
hooligans andavano per questo, per invadere il territorio del nemico, vincerlo.
Andavano in guerra. Sembrerà la stessa cosa la partita che infine si disputò la
sera del 29 maggio 1985. Per pochi istanti, in alcuni momenti salienti
dell’incontro, ognuno spinto da motivazioni diverse, quei ventidue uomini in
campo giocarono come se non sapessero fare altro, come se non potessero fare
che quello: giocare, guerreggiare, vincere o perdere.
Era il loro mestiere.
Furono criticati per questo.
Attaccati. Ancora oggi da alcuni sono addirittura disprezzati.
Ma erano uomini. Ingranaggi,
qualcuno dirà, di meccanismi regolati da altri. Era necessario giocare per
consentire alla polizia belga di riorganizzare la sicurezza e permettere i
soccorsi. Fu lo stesso per quel giro di campo chiesto ai campioni juventini,
per liberare la curva dei tifosi inglesi ed evitare ulteriori scontri.
Ma erano uomini appunti, umani,
più o meno fallibili.
Platini era inarrestabile, forse
l’unico davvero presente a se stesso in campo. Una roccia. Determinato,
arrogante quasi. Altri erano smarriti, ghiacciati da quello che avevano visto e
non avrebbero dimenticato mai. Così Rossi, Cabrini, a tratti lo stesso Scirea,
che avrebbe smesso di giocare di lì a due anni perché “aveva capito che il calcio è cambiato proprio in quel momento ed è un
mondo a cui lui non appartiene”. Uno straordinario Tacconi, capace di
parare anche la vergogna degli assassini.
E poi Boniek, che riassume
l’essenza di quella giornata: “Corre come
se in fondo vedesse la meta, una meta che non è il gol ma qualcosa di più, la
libertà, la vita, il disegno ulteriore di un mondo che dà risposta a tutte
quelle domande che in quell’istante risposta non hanno”.
Non ci sono risposte a quel 29
maggio 1985. Se non nei nostri cuori, nelle nostre coscienze.
Desiati racconta la strage
dell’Heysel con una grazie del cuore che rispetta vivi e morti. Spiega le
logiche del calcio anche a chi non ne sa nulla. E’ il suo, uno sguardo disincantato,
fermo, attento ai fatti. Raccoglie le voci, ascolta i testimoni, legge il
dramma negli occhi di chi visse quel giorno, e lo mescola al suo ricordo di bambino.
“La notte dell’innocenza” è un piccolo
libro che fa peso nel cuore.