domenica 25 settembre 2011

"I pesci non chiudono gli occhi" di Erri De Luca

Un uomo torna indietro con la memoria alla sua infanzia.
"Eravamo nati dopo la guerra, eravamo la schiuma che resta dopo la mareggiata".
Dieci anni. Età di cambiamento. Due cifre che significano tanto. L'estate passata su un'isola con la madre. Il padre in America in cerca di un futuro diverso, la sorellina altrove.
Un corpo da bambino, dentro, la testa di un adulto, o quasi.
Un corpo sposato al mare, capace di fendere l'acqua ma di non parare colpi. E quelli vanno presi. Sono necessari alla crescita. E allora le invidie di tre piccoli isolani per l'amicizia nata per caso con una ragazzina che ama leggere e scrivere storie vere sugli animali lo porta all'estremo sacrificio di lasciarsi pestare il corpo per ottenere il cambiamento che ancora più ora gli sembra necessario. L'ora è il tempo che lo spinge a dare un significato al verbo mantenere, tenere per mano; e di più un senso alla parola amore, fin lì estranea al suo parlato, persino alla pagina scritta dove abitano i suoi pensieri, il suo fare da grande.
Mantenere per mano la ragazzina, attendere il suo duro, passionale 'fare giustizia' e quasi rifiutarlo, declinare il verbo amare, chiude l'estate dei suoi dieci anni, prima del rientro in città, prima della vita che riprende il suo corso, conscio che i due non si rivredranno più, e che in questo sta appunto la vita. "Ma tu non chiudi gli occhi quando baci? I pesci non chiudono gli occhi".
"..le mie frasi scritte non sono più lunghe del fiato che ci vuole a pronunciarle" ecco una delle caratteristiche della scrittura di De Luca, le altre? Poesia; capacità di leggere il quotidiano come di scavare dentro l'animo umano; naturale, di più quasi necessaria commistione tra italiano e dialetto napoletano; evocazione di un '900 che l'autore sente addosso, come un abito impossibile da smettere; un coraggioso relazionarsi alla natura e ai suoi elementi; un forte senso etico e la giusta distanza dalle passioni civili. Uno scrivere il suo, pulito, sfrondato da orpelli estetici, ridotto all'essenziale.

"L'inverno si era sbagliato" di Louisa Young

Inghilterra. Primo '900.
Da tanto, torppo tempo, i giorni si ripetono tutti uguali per Julia, Nadine, Rose.
Sono giorni, mesi, anni di guerra. Di un conflitto che avrebbe segnato per sempre le loro esistenze, cambiato il mondo, travolto il quotidiano, smosso l'intera società.
Julia aspetta il suo Peter, tiene ossessivamente in ordine la casa, teme di non essere più bella come un tempo, si ostina a voler essere perfetta pur sapendo che più alcun pensiero normale, di gioia, bellezza attraverserà la mente del marito, oppresso dal senso di impotenza sperimentato al fronte, dove la morte è compagna di trincea.
Nadine, poco più che ventenne, è costretta ad accantonare i sogni di ragazzina, svincolarsi dalla ricca famiglia borghese per sperimentare la libertà dell'orrore del volontariato e sentirsi più vicina al suo Riley, il piccolo intrepido ribelle cresciuto in mezzo agli artisti, deciso ad emanciparsi da natali poveri che mai gli avrebbero permesso di aspirarare alla sua mano imbarcandosi nell'avventura più pericolosa del tempo: la guerra. Determinato, coraggioso, folle al punto da rinunciare all'amore di Nadine per preservarla da una ferita al volto che lo sfigura, lo annienta come persona salvo capire che non si può rinunciare alla vita, alla felicità, che non si può rifiutare il dono che ad altri, a milioni di altri uomini in mezza Europa in quel momento viene negato e di più non si può arretrare dinanzi alla febbrile ansia di due corpi che si cercano a dispetto di tutti gli orrori, di due cuori che battono solo quando sono insieme.
Vigile spettatrice e attenta cospiratrice l'assenata Rose, infermiera, tutrice di anime perse, smarrite nei labirinti d'ossessione della guerra, decisa ad aiutare quanti tendono la mano, silente ombra al cospetto della morte che ghermisce quanti anelano la vita.
Un romanzo di disarmante tensione narrativa; un drammatico racconto di guerra, capace di scandagliare gli abissi in cui è costretto l'animo umano dopo il confronto quotidiano con la guerra e le sue conseguenze; un preciso riscontro della società inglese e dei rapporti tra classi; una struggente storia d'amore decisa a resistere all'ultimo inverno di guerra; la coraggiosa decisione di tre donne di sperare ancora.

sabato 24 settembre 2011

"La pelle che abito" regia di Pedro Almodóvar

Inquietante. Così l'ultimo film di Amodovar.
Banderas veste i panni del chirurgo estetico Robert Ledgard preso dalla sua ricerca decisamente fuori dagli schemi di costruire in laboratorio una pelle sostitutiva, capace di resistere al calore, di respingere le punture di insetti, ed essere al tempo stesso compatibile, elastica, perfetta. Affascinante, determinato, deciso a infischiarsene dei limiti etici Ledgard ha usato per i suoi esperimenti una cavia umana. Non una qualsiasi. Vera. Una ragazza che abita una grande camera della sua villa/clinica in cui fa yoga, lavora piccole sculture, guarda il canale tematico del National Geografic, indossa tutine atte a preservare il suo corpo.
Questo almeno è quello che lo spettatore è portato a credere, salvo capire dopo una serie di fondamentali quanto drammatici flash-back che Vera è in un gioco folle e perverso ben più di una cavia umana, è la personale forma di vendetta di Legard. Ben più che l'abito che indosso, Vera è l'identità negata e imposta, è l'esemplificazione del male che abita Legard, è l'inquietudine frustrante di chi decide di sostituirsi a Dio non solo per farsi gusitizia da solo ma per farsi creatore di una personale forma di vita, espressione di un desiderio costretto, negato, rifiutato.
La regia di Almodovar non delude, né lo fa la manieristica scelta visiva, né la combinazione 'kitsch ed eleganza' perennemente in bilico, né il fil rouge di una canzone che intrappola dolorosi ricordi, né la forzatura al limite della perversione del sesso, né il piano sfalsato di morale e immorale, né l'indagine psicologica sull'abiezione, né il ricorso ad un'estetica forzata così difforme dal contesto etico in cui è spesso intrappolata. E poi c'é Banderas... novello Frankestein, snaturato dall'odio che lo attanaglia, stravolto in atteggiamenti diabolici che gli attraversano, deformano il volto fino a fare di un uomo bello un Hitler. E non è un esagerazione.. la somiglianza a tratti è agghiacciante.
Il finale è quasi atteso, percepito come torbido ma necessario. Che dire Almodovar, spiazza ancora, costringe a riflettere ma il suo film fa quasi male allo spettatore.

sabato 17 settembre 2011

"Un giorno io e te" di Elsa Chabrol

Louise e l'anziano padre Lalù. Louise e la vecchia nutrice Nunzia. Louise e l'aspra e selvaggia Corsica. Louise e la tenuta in cui è cresciuta, la Pièva. Louise e il primo '900 che scorre impetuoso così come libera, fantasiosa, dirompente corre la sua vita e giorno dopo giorno cresce il sentimento verso il cugino tanto amato, Julien. Insieme da sempre, lontani da troppo, per via degli studi di lui e poi per la guerra. Inspiegabilmente, dolorosamente tutto il mondo di Louise implode. Prima la morte dell'amato padre, poi la perdita dell'amata tenuta, il forzato allontanamento dalla sua Corsica, spingeranno Louise a cercare Julien sui campi di battaglia, un'assurda idea, una determinazione folle a riprendersi quello che il destino e la guerra, disperatamente ovunque intorno a lei, le hanno strappato. A dispetto delle perdite, degli orrori subiti, la piccola Louise saprà aggrapparsi all'amore vagheggiato da sempre per il suo Julien per sopravvivere, di più vivere ostinatamente il suo sogno fino ad accorgersi che spesso la felicità che cerchiamo è accanto a noi, così stupidi da ignorarla.
Nel libro della Chabrol c'é tanto, tutto: una capacità evocativa nel descrivere luoghi e tempi storici, una terra bellissima -la Corsica-, l'amore devozionale di un padre verso la propria figlia, la temerarietà di un amore cercato e imposto, la prima guerra mondiale che implode intorno ai personaggi senza mai prevaricare la storia diventandone essa stessa elemento essenziale a spiegare struggimento e follia dei persoanggi e su tutti lei Louise, una protagonista straordinaria, poco più che una ragazzina decisa a non arrendersi mai perchè "non si può costruire nulla senza conflitto e senza passione".

"Discorso sulla servitù volontaria" di Étienne de La Boétie e "Saggio sull'arte di strisciare a uso dei cortigiani" di Paul H.D. d'Holbach

Quanto mai attuale il breve saggio del pensatore francese del XVI secolo Étienne de La Boétie, tanto caro a Montaigne, si interroga sulle ragioni che consentono ai tiranni di detenere il potere -si dirà, tiranni di ogni epoca- trovandole nell'abdicazione volontaria del potere stesso da parte dei sudditi. Da qui l'ovvio monito -tanto caro nei secoli a venire ad anarchici prima e movimenti di disobbedienza civile poi- a 'non servire più'.
In appendice l'altresì illuminate 'Saggio sull'arte di strisciare a uso dei cortigiani' di Paul H.D. d'Holbach. Nella figura del cortigiano tratteggiata con mordace capacità dall'autore riconoscerete sedicenti potenti o aspiranti tali e tante, tante persone 'comuni' intorno a voi: "Abilità essenziale del cortigiano dovrà essere la conoscenza approfondita di tutti i vizi e le passioni del suo padrone (...) il padrone ama le donne? Ebbene occorrerà procurargliene" (...) "un buon cortigiano non deve mai avere un'opinione propria, ma sempre quella del padrone" (...) "un cortigiano non deve mai avere ragione, non gli è concesso essere più brillante del suo signore" (...) "un cortigiano deve avere lo stomaco abbastanza forte da digerire tutti gli affronti del suo padrone" etc.

domenica 11 settembre 2011

"La leggenda del morto contento" di Andrea Vitali

Estate del 1843 in quel di Bellano. Dal molo due ragazzi s'affannano a mettere in acqua una barchetta e prendere il largo. Un uomo cerca di fermarli. Li avverte che di lì a poco si scatenerà una tempesta. I due lo irridono. Nulla fa pensare al volgere del cattivo tempo eppure l'uomo sembra insistere. Parla di un vento, del favonio che reca in sé il cattivo auspicio dei naufragi. I due si allontanano, prendono il largo. Il loro destino è segnato e si rivela terribile poche ore dopo.
I due giovani sono Francesco Gorgia, unico erede del più ricco mercante della zona e Emilio Spanzen, figlio di un noto ingegnere ferroviario, amico del governatore austriaco. L'uomo mite che di lì a breve tenterà di avvertire la comunità tutta è il sarto del paese, tal Lepido. Impicciato in certe beghe di comari, sopraffatto dalla moglie Diomira, il buon uomo resterà impigliato nella rete della burocrazia e della legalità che abbisogna di un colpevole ad ogni costo: qualcuno da sacrificare per soddisfare notabili, politici e gente del popolo incapace di accettare la perdità in un incidente di due giovani ricchi e nobili cui la vita prometteva tutto. E peccato se a pagare con sei mesi di carcere in isolamento è un uomo la cui massima aspirazione era scorgere i segni della natura, passeggiare per i monti e i boschi, lasciarsi vincere dai venti. O no? Non è forse in carcere che Lepido può riflettere sulla sua situazione, sugli ultimi anni di costrizione al fianco di una donna che gli negava persino il cibo e che lo sminuiva in ogni gesto anche in presenza di estranei.. forse tra le sbarre dell'unica finestra che gli permette di guardar fuori Lepido può ritrovare la via per essere se stesso, e decidere, libero da ogni condizionamento, ingiustamente recluso, di liberarsi della vita stessa e perchè no.. morire contento.
Tratteggiato con la solita attenzione ai particolari geografici, Vitali propone una storia ambientata sotto la dominazione asutriaca nelle zone a lui care, regalando protagonisti unici. Un piccolo mondo antico di personaggi, umori, odori che si riflettono in una narrazione semplice e suggestiva. Meno intrigante di altre storie proposte in quel di Bellano, 'La leggenda del morto contento' spinge il lettore ad un riso amaro rivelando quanto la vita del povero, specie sotto il gioco dei potenti, abbia sempre contato meno che niente.

sabato 10 settembre 2011

"Almeno il cappello" di Andrea Vitali

Un'accozaglia di musicisti prestati dal caso formano la fanfara che accoglie i turisti in quel di Bellano. Poca cosa a fronte degli altri paesi, che vantano bande e maestri eppure il caso o più semplicemente la volontà e la necessità di una prolifica madre di famiglia, rispondente al nome di Estenuata Geminazzi, portano in quel di Bellano un pingue e capace ragioniere amante della musica e deciso a metter su il primo Corpo Musicale Bellanese. Certo ben più ardito sembra legare le personalità accese del prevosto, del podestà, del segretario comunale e dei notabili della zona e ancor più, scovare nei paesi della zona musicisti atti a suonare. Tra questi il Lindo Nasazzi, primo bombardino, da pochi mesi convolato in secondo nezze con la Noemi, tipo energico che a suon di schiaffoni l'aveva bruscamente invitato ad affidarle la paga e tenersi lontano dalle osterie. A poche ore dall'evento che avrebbe fatto conoscere la banda musicale consacrando al mito locale il nome del maestro Geminazzi un incidente coinvolge il Nasazzi capace in punto di morte di giocare un tiro alla moglie e alla comunità tutta. Che di lui si salvi almeno il cappello.. della pregevole divisa del corpo musicale! O no? E se quel cappello facesse la fortuna di qualche sprovveduto? O costringesse a più miti aspirazioni il Geminazzi? Intanto benché a strimpellare per strada torni la fanfara in quel di Bellano molti han da festeggiare: chi la recuperata tranquillità, chi un'inaspettata felicità coniugale, chi una pratica fortuna, chi un lavoro, chi una sana bevuta in osteria.

venerdì 9 settembre 2011

"Terraferma" regia di Emanuele Crialese

Una piccola isola in mezzo al Mediterraneo, un puntino proteso verso quella terraferma che è lontana di sensi, leggi e tradizioni. Perchè sull'isola, abitata per lo più da pescatori, vige solo la legge del mare, quella che spinge a non portare rancore al mare che toglie tutto finanche la vita ma che è capace di generosità e fortune quotidiane, dal pescato al senso di libertà che dalle onde promana. Lo sa bene il vecchio Ernesto che in mare ha perso un figlio e che pure su quel mare va giorno dopo giorno aggrappandosi alle reti come ci si aggrappa alla vita e pure il nipote Filippo, che la madre Giulietta e lo zio Nino vorrebbero più aperto, più sveglio, al mare non sa rinunciare. Ma i tempi cambiano.. in mare si pescano 'cristiani' non pesci, l'immigrazione spinge disperati a viaggi spesso senza meta, senza ritorno e tutto questo mentre a riva orde di turisti berciano per un posto al sole e un tuffo in acque cristalline. Eppure sebbene il miraggio di una vita più facile sia possibile Filippo aiuta suo nonno a soccorrere degli immigrati in mare, tra questi una donna incinta e suo figlio. A dispetto della legge che gli impone il sequestro della nave e un'accusa di correità nell'ingresso illegale in Italia degli extracomunitari Filippo dovrà confrontarsi con la legge del mare e del cuore che gli impone una scelta difficile ma ponderata.
Un film poetico, dolente, che spinge a riflettere, che scuote l'anima. Un film per immagini capaci di raccontare più di tante parole. Nel cast spiccano su tutti gli attori non professionisti, i veri protagonisti dell'isola pescati come pesci in un reale di figuranti della vita.

domenica 4 settembre 2011

"La libreria dei nuovi inizi" di Anjali Banerjee

"Mandare avanti una libreria vuole dire questo. Lavorare senza orari, dormire nel sottotetto, ascoltare i libri che respirano di notte".
A questo deve abituarsi Jasmine tornando nella vecchia libreria di sua zia Ruta a Shelter Island. Deve lasciarsi andare, se vuole scrollarsi di dosso la rabbia, la delusione di un matrimonio finito infelicemente e tutta la tensione di un lavoro che rischia di fagocitarla.
"Gli scrittori ti aiuteranno. Le loro parole.." le dice sua zia Ruta un attimo prima di partire per un viaggio in India affidandole la vecchia libreria e i suoi segreti.. segreti che rischiano di spaventarla in principio, segreti che prendono forma nei ricordi della sua infanzia e che attribuivano all'immaginazione visioni fantastiche. Ma è davvero solo il suo turbamento emotivo a farle vedere nelle sale della liberia, tra scaffali e vecchi libri Edgar Allan Poe, Jane Austen e Beatrix Potter? A suggerire ai tanti visitatori i libri giusti da acquistare? E forse a permetterle, giorno dopo giorno, di riconquistare fiducia in se stessa, e liberarla dall'oppressione di colpe che non sono sue? E il suo cuore, la sua mente.. possono dar forma alla magia e regararle per un giorno di nuovo l'amore? Connor è questo? O la proiezione della nuova consapevolezza di sé? Perché come le suggerisce Jane Austen.. "quello che perdiamo, lo ritroviamo. Amiamo, perdiamo quelli che amiamo, eppure possiamo amare di nuovo". In fondo "bisogna buttarsi, rischiare, prendere in mano la vita, fosse anche per un giorno soltanto".
Un romanzo dalla trama semplice, coinvolgente, che vira al fantastico nel giro di poche pagine salvo lasciare una scia polverosa di magia proprio come tra gli scaffali della vecchia libreria di Ruta perché 'per alcune persone i libri fanno la differenza tra felicità e infelicità, speranza e dipserazione, una vita degna di essee vissuta e una orribilemnte noiosa'. La Banejee con la storia della sua Jasmine ci strappa alla noia per un paio d'ore regalandoci un sorriso.

sabato 3 settembre 2011

"Avevano spento anche la luna" di Ruta Sepetys

"Andrius sono spaventata.."
"No, non devi esserlo. Non devi concedergli niente, Lina, nemmeno la tua paura".
Lina ha quasi sedici anni. Sa disegnare benissimo e ha un sogno: diventare un artista. Ma qualcuno è deciso a strapparle quel sogno, di più, a strapparle tutto quello che ha: affetti, sicurezza, la vita stessa. Lina è lituana, figlia di un rettore universitario. Ma é l'estate del '41 e i russi, che un anno prima hanno occupato gli stati baltici, hanno deciso di sbarazzarsi di quanti reputano antisovietici: sono insegnanti, avvocati, medici, artisti, gente comune finita su una lista nera.
Indesiderati, cacciati dallo loro stessa patria, costretti a viaggiare su carri bestiame, privati della dignità, criminali per il solo fatto di esistere, internati in campi di lavoro, confinati in Siberia dove il freddo uccide in silenzio.
Lina però a dispetto del dolore, delle privazioni, della disumanità che la circonda, è decisa a sopravvivere, di più a vivere, per raccontare al mondo l'orrore di cui lei e la sua gente è stata vittima. Lo fa disegnando, scrivendo, lo fa testimoniando giorno dopo giorno il male ricevuto. Lo fa desiderando che l'impietoso inverno siberiano passi per ritrovare il giovane Andrius e vivere con lui. Perchè l'amore è "l'esercito più potente".
Una descrizione lucida, dolorosa e potente capace di disarmare il male per svelare l'amorevole forza di una madre che protegge i suoi figli e che non lesina gesti di umanità verso gli altri, finanche verso i propri aguzzini perchè 'una cattiva azione subita non ci dà il diritto di agire male'. Un insegnamento decisivo, che completa come persona, il personaggio centrale della narrazione della Sepetys: Lina, dotandolo della forza, del coraggio, dell'autenticità necessari a lottare anche quando tutto sembra perduto. Un libro che svela al mondo le atrocità commesse dal regime di Stalin, impossibili da negare. Una storia che resta dentro.