giovedì 19 luglio 2018

"Le stanze dell'addio" di Yari Selvetella

"Ci accorgiamo di essere felici, stanchi e felici certo, ma non è quasi mai il primo pensiero e passa il tempo, sera dopo sera, giorno dopo giorno, senza che ce ne rendiamo conto".
E poi improvvisamente l'oggetto amato se lo porta via una malattia canaglia e si resta invischiati in un dolore che reclama attenzione, che abita luoghi fisici e mentali che strabordano dal quotidiano di attenzioni e cure che chi resta, ricerca, pretende e allora si mortificano bisogni, si mettono a tacere sensi di colpa, si rifuggono i perché, le domande che dovevano o potevano essere poste ai medici, ma sarebbero davvero servite a qualcosa? E si avanza nel limbo dei ricordi, imprigionati in un luogo che sospende la pena dell'assenza - l'ospedale - salvo tornare al mondo, e perdersi ancora in ogni gesto che ricorda   la persona amata.
Le vite di due uomini si incrociano così in un ospedale. Il dolore li fa riconoscere tra tanti. Il dolore col tempo li salva dall'indifferenza del mondo e di se stessi.
Non serve raccontare più di tanto del romanzo di Yari Selvetella. Ogni parola aggiunta rischia di sciupare la bellezza fragile di un testo che declina l'amore e lo struggimento dell'elaborazione del lutto che è cosa intima, personalissima. Si può e si deve dire però che "Le stanze dell'addio" sono e possono essere abitate da ognuno di noi, perciò essere fatte proprie con la sensibilità che abita i nostri cuori.
Nelle parole di Selvetella c'è cura, pudore, infinita attenzione. È come una liturgia. È la mano protesa. È la prossimità di chi si lascia invadere dal bene. È la forza stessa della vita.

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